Giusto prezzo di Tommaso d'Aquino

La filosofia aristotelica venne ripresa dalla filosofia scolastica del Duecento, il cui esponente principale fu Tommaso, e assimilata al cristianesimo. Venne ripresa la tematica del 'giusto prezzo', determinato dalla communis aestimatio del prezzo normale in assenza di monopolio. In ambito lavorativo il giusto prezzo si trasformava in 'giusto salario', ossia in quella remunerazione in grado di garantire al lavoratore un livello adeguato di vita. In base al 'principio delle equivalenze' il giusto prezzo delle merci era originato dal costo del lavoro. Questa tesi fu ripresa dagli economisti moderni del '800 per fondare uno dei principali pilastri della teoria classica e di quella marxista. Nel costo di produzione era incluso anche il profitto, purché moderato ed equo, sufficiente per mantenere la famiglia del commerciante e garantirgli un livello di vita adeguato alla sua condizione sociale. In epoca più moderna il giusto profitto verrebbe denominato 'salario di direzione'. Gli scolastici del '200 non approfondirono le cause determinanti del lavoro, per gli scopi che si proponevano era sufficiente ottenere una giustizia commutativa e uno scambio eguale in cui nessuno dei contraenti ottiene più di quanto offre. Non si chiesero tuttavia la causa della differenza osservata sui prezzi reali rispetto ai prezzi 'giusti' (o naturali). Il tono moralistico della Scolastica è la risposta normativa della Chiesa all'espansione dei commerci nel '20 ponendo a rischio il precedente ordine sociale medioevale che si presentava invece conforme al disegno divino. I profitti commerciali generati dai prezzi di vendita delle merci, l'usura e la proprietà privata del nuovo ceto comunale-borghese stavano agevolando l'ascesa di una nuova classe dirigente e un potenziale nemico per il potere temporale della Chiesa. La stessa proprietà privata fu oggetto di dure critiche da parte degli scolastici in nome di un creato appartenente esclusivamente a Dio e messo a disposizione per gli uomini. Le critiche alla proprietà privata da parte degli scolastici furono riprese secoli dopo dalle dottrine socialiste. Altrettanto dura fu la critica degli scolastici al profitto delle attività creditizie con la condanna dell'usura. Secondo gli scolastici la moneta non possedeva un valore intrinseco, bensì soltanto un segno convenzionale per favorire lo scambio delle merci reali. Inoltre, la moneta era un oggetto che nel tempo si consumava con l'utilizzo. Due motivi che giustificarono nella teoria scolastica la condanna nei confronti di chi erogava prestiti e di ogni attività creditizia. Perlomeno, di quelle non riconosciute dalla Chiesa e al di fuori del giusto prezzo.

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